La stanza di Anna

sono troppo contenta!!!
l’ acero che ho qui sotto casa e che credevo ormai morto dopo le amputazioni che lo avevano ridotto al solo tronco ha messo fuori un piccolissimo germoglio
evvai!!! viva la vita :slight_smile:

in molte relazioni, specialmente per lo scialpinismo, l’ autore si chiede il perché degli assembramenti e delle sciate di massa
ho letto questo articolo su WP e lo trovo interessante… :smiley:
ho tolto certe parti per non tediare troppo

Comportamento collettivo degli scialpinisti (es alla ghilie’)

La locuzione comportamento collettivo degli scialp si riferisce all’agire coordinato di estesi gruppi di scialp simili e alle proprietà emergenti di questi gruppi.
Questo argomento include, nelle sue sfaccettature, i vantaggi e gli svantaggi di appartenere al gruppo, il trasferimento di informazioni all’interno dello stesso, il processo decisionale del gruppo, la locomozione e la sincronizzazione del gruppo … Per esempio, determinare le regole per cui un individuo regola la propria traiettoria in relazione ai suoi compagni di gruppo …

Sono state proposte molte funzioni riguardo a tali aggregazioni. Queste funzioni possono essere raggruppate nelle quattro seguenti categorie:

Interazione sociale
Un esempio di funzione genetica e sociale delle aggregazioni, può essere osservato in numerosi aspetti del loro comportamento. Per esempio, esperimenti hanno dimostrato che un singolo scialp, rimosso dal banco mostra un tasso respiratorio superiore che in quelli all’interno del banco.
Questo comportamento è stato attribuito alla tensione, e pertanto sembra essere calmante l’effetto di trovarsi con altri elementi della propria specie, il che costituirebbe una forte motivazione sociale del rimanere in stato gregario, ad esempio, diverranno molto agitati se isolati dai propri simili.
I banchi di scialp- è stato proposto - assolverebbero inoltre a una funzione riproduttiva, in quanto consentono un maggiore accesso a potenziali partner.

Protezione dai predatori
Sono stati proposti parecchi esempi di funzione anti-predatori. Un potenziale metodo con cui gli scialp potrebbero ostacolare i predatori è l’effetto confondi-predatori .
Questa teoria è basata sull’idea che diviene difficile ai predatori selezionare una preda singola all’interno di gruppi, perché i numerosi bersagli in movimento creano un sovraccarico di percezioni visive al predatore.
Un secondo potenziale effetto anti-predatori delle aggregazioni di animali è l’ipotesi dei molti occhi. Questa teoria afferma che, con l’aumentare della dimensione del gruppo, il compito di analizzare l’ambiente circostante in cerca di predatori può essere suddiviso tra molti individui. Non solo questa collaborazione di massa consente un più alto livello di vigilanza, ma potrebbe anche lasciare più tempo all’alimentazione individuale.
Una terza ipotesi è quella dell’effetto sminuire lo scontro.
L’aggregazione degli animali potrebbe essere dovuta all’« egoistica » elusione del predatore, e perciò un modo per cercare un riparo all’interno del gruppo.
Un’altra ipotesi e’ quella della combinazione tra probabilità di rilevazione e probabilità di attacco da parte di un predatore.
Una potenziale preda potrebbe trarre benefici dal vivere in gruppo, dato che un predatore ha meno probabilità di imbattersi in un singolo gruppo piuttosto che su una distribuzione sparsa di prede.
Nella parte circa l’attacco del predatore, si ipotizzò che un predatore che attacca ha meno probabilità di mangiare un particolare individuo, quando sono presenti altri individui in gran numero.
Riassumendo, un individuo è in vantaggio se si trova nel più grande tra due gruppi, assumendo che la probabilità di rilevazione e di attacco non aumenti sproporzionatamente con la dimensione del gruppo.

Miglioramento nella « nutrizione scilapinistica » ossia nella localizzazione della neve
Un terzo beneficio degli assembramenti, è quello del miglioramento nella ricerca della neve
Con l’ aumentare del numero di di scialp si avrebbe una significativa diminuzione del tempo necessario a trovare la materia prima.

Aumento dell’efficienza locomotoria
Questa teoria afferma che gruppi di scialp possono risparmiare energia quando sciano insieme, in squadra. Anche le oche che volano in formazione a V - si pensa - risparmiano energia volando sulla corrente ascendente dei vortici d’ala generati dall’animale che li precede nella formazione. Si è dimostrato che anche gli anatroccoli risparmiano energia nuotando in linea.
Un’aumentata efficienza nel nuoto di gruppo è stata proposta anche per banchi di pesci e per il krill antartico.

Struttura del gruppo
La struttura di grandi gruppi di scialp è complessa proprio a causa del grande numero di scialp coinvolti. Per questo l’approccio sperimentale è spesso unito alla modellazione matematica di questi gruppi.

Approccio sperimentale
Gli esperimenti che studiano la struttura dei gruppi di scialp cercano di determinare la posizione nello spazio di ogni scialp all’interno di un dato volume in ogni unità di tempo. È importante conoscere la struttura interna del gruppo poiché questa può essere collegata alle motivazioni che hanno spingoto a muoversi in gruppo. Per ottenere questi dati si utilizzano diverse telecamere (GO PRO per esempio) che riprendono da più angolazioni la stessa porzione di spazio, secondo la tecnica della fotogrammetria. Quando centinaia o migliaia di scialp occupano il volume studiato, diventa complesso distinguere ogni individuo, inoltre gli scialp possono allinearsi e nascondersi a vicenda. Se si riescono a superare questi problemi, si può arrivare a conoscere la posizione di ogni individuo nel tempo e diversi parametri descrittivi possono essere ricavati dall’analisi dei dati ottenuti.

Tra questi vi sono:

Densità: la densità di un gruppo è il rapporto tra il numero di scialp e il volume (o l’area) occupato dall’intero gruppo. La densità può variare in diverse parti del gruppo.
Polarità: la polarità del gruppo indica se il gruppo è rivolto nella stessa direzione o meno.
Distanza dall’individuo più vicino: la distanza dall’individuo più vicino (NND, dall’inglese: Nearest Neighbor Distance)è la distanza che intercorre tra il baricentro di uno scialle (detto focale) e il baricentro dello scialp più vicino … Per gli scialp collocati ai bordi del gruppo bisogna considerare la mancanza di animali in una o più direzioni.
Posizione dell’individuo più vicino: in un sistema di coordinate polari, indica l’angolo e la distanza tra ciascuno scialp e il più vicino tra gli altri scialp del gruppo.
Fattore di impilaggio: il fattore di impilaggio è un parametro preso a prestito dalla fisica per definire l’organizzazione di un gruppo in 3 dimensioni.
È una misura alternativa alla densità. Per il calcolo di questo parametro il gruppo è idealizzato come un insieme di sfere solide, con una sfera centrata su ciascun elemento. Il fattore di impilaggio è definito come il rapporto tra il volume totale occupato dalle sfere e il volume totale occupato dal gruppo (includendo quindi lo spazio tra le sfere). Il valore è compreso tra zero e uno.
Densità condizionata integrata:
Questo parametro misura la densità a diverse scale di lunghezza, e pertanto descrive l’omogeneità della densità all’interno del gruppo.
Funzione di distribuzione di coppia: Questo parametro è solitamente utilizzato in fisica per caratterizzare il grado di ordine spaziale in un sistema di particelle. Esso descrive anche la densità relativa a una certa distanza da un punto fissato (perciò di coppia). LO stormo di scialp esibisce una struttura intermedia tra quella di un gas e quella di un liquido.
I più semplici modelli matematici che descrivono gruppi di scialp seguono tre regole:

Muoviti nella stessa direzione degli scialp che ti circondano
Rimani vicino agli scialp che ti circondano
Evita di scontrarti con gli scialp che ti circondano
Nella zona più vicina a ciascuno scialp la regola ‹ Evita la collisione coi vicini › è prioritaria mentre nella fascia intermedia prevale il tentativo di mantenere la stessa direzione dei vicini, infine se un elemento si allontana eccessivamente da uno degli altri scialp che lo circondano, entra nella fascia di attrazione, dove l’obiettivo principale consiste nel cercare di riavvicinarsi al compagno. La forma di queste zone è necessariamente influenzata dalle capacità sensoriali. Ad esempio, il campo visivo non si estende alla parte posteriore del corpo.

Recenti studi hanno mostrato tuttavia tuttavia, che ogni scialp modifica la propria posizione relativamente ai sei o sette scialp che lo circondano direttamente, a prescindere da quanto vicini o lontani questi scialp siano. Le interazioni tra storni in sciata sono pertanto basate su una regola topologica anziché su una regola metrica. Resta da vedere se la medesima regola si possa applicare ad altri animali.

Prendere decisioni in gruppo
Un gruppo di scialp , se vuole rimanere unito, si trova di fronte al problema di come fare a prendere decisioni collettive. Ad esempio, una decisione da prendere potrebbe essere quando e dove spostarsi. Come vengono prese tali decisioni? Sono i più forti o gli individui di maggior esperienza, che esercitano maggior influenza degli altri membri sul gruppo, a decidere, oppure il gruppo prende la sua decisione « democraticamente »? La risposta dipende dalla specie…

Uno studio recente ha mostrato che piccoli gruppi di scialp usano questo sistema quando devono decidere quale comportamento seguire.
Gli scialp fanno questo in un modo molto semplice: ognuno guarda la decisione che ha preso l’altro prima di prendere la propria. Questa tecnica generalmente porta alla decisione giusta, ma non sempre. :smiley:
ecc ecc

E che cos’è, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo?

Tu hai il buon tempo … :rolleyes:

ehm pioveva e io non sapevo tanto cosa fare
era per ridere
perdono, perdono, perdono…il male l’ ho fatto più a me… io soffro più ancora di te :smiley: te la ricordi questa canzoncina?

non me ne vogliano quelli che amano i messaggi veloci e le comunicazioni sprint, magari mal abituati da uotsap e similari
e non apprezzano la delicatezza del modo di comunicare del forum
se ti garba leggi, altrimenti passi oltre, specialmente se conosci lo scrivente :wink:
il forum non ti suona nelle orecchie per metterti al corrente dell’ ultima sparata, obbligandoti a stare inchiodato davanti alla « tavoletta »;
sabato sera, durante la cena pregara, più della meta’ della gente era presente solo fisicamente in sala perché connessa con qualcuno all’ esterno…

c’est la vie … :rolleyes:

avete notato i prati che meraviglia di fioritura?
c’est le printemps :slight_smile:

c’ est le printemps seconda parte
ho dovuto interrompere a meta’ il post…
dicevo,
avete visto che immensa fioritura quest’ anno?
o sono io che tutti gli anni mi meraviglio :smiley: , oppure davvero quest’ anno e’ eccezionale
se tutti i fiori portano un frutto, potremo farci delle belle scorpacciate

oggi fa brutto e cosi’ abbiamo tempo di leggerci qualche pezzetto di queste due interessanti lettere
pregherei quelli che si stufano subito, di non cominciare neanche
si parla di guerra, di motivazioni che portano alla guerra
anche per noi che ne siamo un po’ fuori, qualche pensiero piu’ profondo una tantum non guasta :smiley:
non ho sottolineato le cose che ho trovato piu’ « forti » per non influenzare la vostra lettura
ripeto, astenersi chi ama non pensare…e’ facilissimo, basta un clic :wink:

PERCHÈ LA GUERRA? Carteggio Albert Einstein - Sigmund Freud
Lettera di Einstein a Freud - Gaputh (Potsdam), 30 luglio 1932

Caro signor Freud,
La proposta, fattami dalla Società delle Nazioni e dal suo “Istituto internazionale di cooperazione intellettuale” di Parigi, di invitare una persona di mio gradimento a un franco scambio d’opinioni su un problema qualsiasi da me scelto, mi offre la gradita occasione di dialogare con Lei circa una domanda che appare, nella presente condizione del mondo, la più urgente fra tutte quelle che si pongono alla civiltà. La domanda è: C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? E’: ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa.
Penso anche che coloro cui spetta affrontare il problema professionalmente e praticamente divengano di giorno in giorno più consapevoli della loro impotenza in proposito, e abbiano oggi un vivo desiderio di conoscere le opinioni di persone assorbite dalla ricerca scientifica, le quali per ciò stesso siano in grado di osservare i problemi del mondo con sufficiente distacco. Quanto a me, l’obiettivo cui si rivolge abitualmente il mio pensiero non m’aiuta a discernere gli oscuri recessi della volontà e del sentimento umano. Pertanto, riguardo a tale inchiesta, dovrò limitarmi a cercare di porre il problema nei giusti termini, consentendoLe così, su un terreno sbarazzato dalle soluzioni più ovvie, di avvalersi della Sua vasta conoscenza della vita istintiva umana per far qualche luce sul problema. Vi sono determinati ostacoli psicologici di cui chi non conosce le scienze mentali ha un vago sentore, e di cui tuttavia non riesce a esplorare le correlazioni e i confini; sono convinto che Lei potrà suggerire metodi educativi, più o meno estranei all’ambito politico, che elimineranno questi ostacoli.
Essendo immune da sentimenti nazionalistici, vedo personalmente una maniera semplice di affrontare l’aspetto esteriore, cioè organizzativo, del problema: gli Stati creino un’autorità legislativa e giudiziaria col mandato di comporre tutti i conflitti che sorgano tra loro. Ogni Stato si assuma l’obbligo di rispettare i decreti di questa autorità, di invocarne la decisione in ogni disputa, di accettarne senza riserve il giudizio e di attuare tutti i provvedimenti che essa ritenesse necessari per far applicare le proprie ingiunzioni. Qui s’incontra la prima difficoltà: un tribunale è un’istituzione umana che, quanto meno è in grado di far rispettare le proprie decisioni, tanto più soccombe alle pressioni stragiudiziali. Vi è qui una realtà da cui non possiamo prescindere: diritto e forza sono inscindibili, e le decisioni del diritto s’avvicinano alla giustizia, cui aspira quella comunità nel cui nome e interesse vengono pronunciate le sentenze, solo nella misura in cui tale comunità ha il potere effettivo di impone il rispetto del proprio ideale legalitario. Oggi siamo però lontanissimi dal possedere una organizzazione sovrannazionale che possa emettere verdetti di autorità incontestata e imporre con la forza di sottomettersi all’esecuzione delle sue sentenze. Giungo così al mio primo assioma: la ricerca della sicurezza internazionale implica che ogni Stato rinunci incondizionatamente a una parte della sua libertà d’azione, vale a dire alla sua sovranità, ed è assolutamente chiaro che non v’è altra strada per arrivare a siffatta sicurezza.
L’insuccesso, nonostante tutto, dei tentativi intesi nell’ultimo decennio a realizzare questa meta ci fa concludere senz’ombra di dubbio che qui operano forti fattori psicologici che paralizzano gli sforzi. Alcuni di questi fattori sono evidenti. La sete di potere della classe dominante è in ogni Stato contraria a qualsiasi limitazione della sovranità nazionale. Questo smodato desiderio di potere politico si accorda con le mire di chi cerca solo vantaggi mercenari, economici. Penso soprattutto al piccolo ma deciso gruppo di coloro che, attivi in ogni Stato e incuranti di ogni considerazione e restrizione sociale, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi, soltanto un occasione per promuovere i loro interessi personali e ampliare la loro personale autorità.
Tuttavia l’aver riconosciuto questo dato inoppugnabile ci ha soltanto fatto fare il primo passo per capire come stiano oggi le cose. Ci troviamo subito di fronte a un’altra domanda: com’è possibile che la minoranza ora menzionata riesca ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e da perdere? (Parlando della maggioranza non escludo i soldati, di ogni grado, che hanno scelto la guerra come loro professione convinti di giovare alla difesa dei più alti interessi della loro stirpe e che l’attacco è spesso il miglior metodo di difesa.) Una risposta ovvia a questa domanda sarebbe che la minoranza di quelli che di volta in volta sono a1 potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò le consente di organizzare e sviare i sentimenti delle masse rendendoli strumenti della propria politica.
Pure, questa risposta non dà neanch’essa una soluzione completa e fa sorgere una ulteriore domanda: com’è possibile che la massa si lasci infiammare con i mezzi suddetti fino al furore e all’olocausto di sé?
Una sola risposta si impone: perché l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di distruggere. In tempi normali la sua passione rimane latente, emerge solo in circostanze eccezionali; ma è abbastanza facile attizzarla e portarla alle altezze di una psicosi collettiva. Qui, forse, è il nocciolo del complesso di fattori che cerchiamo di districare, un enigma che può essere risolto solo da chi è esperto nella conoscenza degli istinti umani.
Arriviamo così all’ultima domanda. Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione? Non penso qui affatto solo alle cosiddette masse incolte. L’esperienza prova che piuttosto la cosiddetta “intellighenzia” cede per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto diretto con la rozza realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata.
Concludendo: ho parlato sinora soltanto di guerre tra Stati, ossia di conflitti internazionali. Ma sono perfettamente consapevole del fatto che l’istinto aggressivo opera anche in altre forme e in altre circostanze (penso alle guerre civili, per esempio, dovute un tempo al fanatismo religioso, oggi a fattori sociali; o, ancora, alla persecuzione di minoranze razziali). Ma la mia insistenza sulla forma più tipica, crudele e pazza di conflitto tra uomo e uomo era voluta, perché abbiamo qui l’occasione migliore per scoprire i mezzi e le maniere mediante i quali rendere impossibili tutti i conflitti armati.
So che nei Suoi scritti possiamo trovare risposte esplicite o implicite a tutti gli interrogativi posti da questo problema che è insieme urgente e imprescindibile. Sarebbe tuttavia della massima utilità a noi tutti se Lei esponesse il problema della pace mondiale alla luce delle Sue recenti scoperte, perché tale esposizione potrebbe indicare la strada a nuovi e validissimi modi d’azione.
Molto cordialmente Suo
Albert Einstein

La risposta di Freud

Caro signor Einstein,
Quando ho saputo che Lei aveva intenzione di invitarmi a uno scambio di idee su di un tema che Le interessa e che Le sembra anche degno dell’interesse di altri, ho acconsentito prontamente. Mi aspettavo che Lei avrebbe scelto un problema al limite del conoscibile al giorno d’oggi, cui ciascuno di noi, il fisico come lo psicologo, potesse aprirsi la sua particolare via d’accesso, in modo che da diversi lati s’incontrassero sul medesimo terreno. Lei mi ha pertanto sorpreso con la domanda su che cosa si possa fare per tenere lontana dagli uomini la fatalità della guerra. Sono stato spaventato per prima cosa dall’impressione della mia - starei quasi per dire: della nostra - incompetenza, poiché questo mi sembrava un compito pratico che spetta risolvere agli uomini di Stato. Ma ho compreso poi che Lei ha sollevato la domanda non come ricercatore naturale e come fisico, bensì come amico dell’umanità, che aveva seguito gli incitamenti della Società delle Nazioni così come fece l’esploratore polare Fridtjof Nansen allorché si assunse l’incarico di portare aiuto agli affamati e alle vittime senza patria della guerra mondiale. Ho anche riflettuto che non si pretende da me che io faccia proposte pratiche, ma che devo soltanto indicare come il problema della prevenzione della guerra si presenta alla considerazione di uno psicologo. Ma anche a questo riguardo quel che c’era da dire è gia stato detto in gran parte nel Suo scritto. In certo qual modo Lei mi ha tolto un vantaggio, ma io viaggio volentieri nella sua scia e mi preparo perciò a confermare tutto ciò che Lei mette innanzi. nella misura in cui lo svolgo più ampiamente seguendo le mie migliori conoscenze (o congetture).
Lei comincia con il rapporto tra diritto e forza. È certamente il punto di partenza giusto per la nostra indagine. Posso sostituire la parola “forza” con la parola più incisiva e più dura “violenza”? Diritto e violenza sono per noi oggi termini opposti. È facile mostrare che l’uno si è sviluppato dall’altro e, se risaliamo ai primordi della vita umana per verificare come ciò sia da principio accaduto, la soluzione del problema ci appare senza difficoltà. Mi scusi se nel seguito parlo di ciò che è universalmente noto come se fosse nuovo; la concatenazione dell’insieme mi obbliga a farlo.
I conflitti d’interesse tra gli uomini sono dunque in linea di principio decisi mediante l’uso della violenza. Ciò avviene in tutto il regno animale, di cui l’uomo fa inequivocabilmente parte; per gli uomini si aggiungono, a dire il vero, anche i conflitti di opinione, che arrivano fino alle più alte cime dell’astrazione e sembrano esigere, per essere decisi, un’altra tecnica. Ma questa è una complicazione che interviene più tardi. Inizialmente, in una piccola orda umana, la maggiore forza muscolare decise a chi dovesse appartenere qualcosa o la volontà di chi dovesse essere portata ad attuazione. Presto la forza muscolare viene accresciuta o sostituita mediante l’uso di strumenti; vince chi ha le armi migliori o le adopera più abilmente. Con l’introduzione delle armi la superiorità intellettuale comincia già a prendere il posto della forza muscolare bruta, benché lo scopo finale della lotta rimanga il medesimo: una delle due parti, a cagione del danno che subisce e dell’infiacchimento delle sue forze, deve essere costretta a desistere dalle proprie rivendicazioni od opposizioni. Ciò è ottenuto nel modo più radicale quando la violenza toglie di mezzo l’avversario definitivamente, vale a dire lo uccide. Il sistema ha due vantaggi, che l’avversario non può riprendere le ostilità in altra occasione e che il suo destino distoglie gli altri dal seguire il suo esempio. Inoltre l’uccisione del nemico soddisfa un’inclinazione pulsionale di cui parlerò più avanti. All’intenzione di uccidere subentra talora la riflessione che il nemico può essere impiegato in mansioni servili utili se lo s’intimidisce e lo si lascia in vita. Allora la violenza si accontenta di soggiogarlo, invece che ucciderlo. Si comincia così a risparmiare il nemico, ma il vincitore da ora in poi ha da fare i conti con la smania di vendetta del vinto, sempre in agguato, e rinuncia in parte alla propria sicurezza.
Questo è dunque lo stato originario, il predominio del più forte, della violenza bruta o sostenuta dall’intelligenza. Sappiamo che questo regime è stato mutato nel corso dell’evoluzione, che una strada condusse dalla violenza al diritto, ma quale? Una sola a mio parere: quella che passava per l’accertamento che lo strapotere di uno solo poteva essere bilanciato dall’unione di più deboli. L’union fait la force. La violenza viene spezzata dall’unione di molti, la potenza di coloro che si sono uniti rappresenta ora il diritto in opposizione alla violenza del singolo. Vediamo così che il diritto è la potenza di una comunità. È ancora sempre violenza, pronta a volgersi contro chiunque le si opponga, opera con gli stessi mezzi, persegue gli stessi scopi; la differenza risiede in realtà solo nel fatto che non è più la violenza di un singolo a trionfare, ma quella della comunità. Ma perché si compia questo passaggio dalla violenza al nuovo diritto deve adempiersi una condizione psicologica. L’unione dei più deve essere stabile, durevole. Se essa si costituisse solo allo scopo di combattere il prepotente e si dissolvesse dopo averlo sopraffatto, non si otterrebbe niente. Il prossimo personaggio che si ritenesse più forte ambirebbe di nuovo a dominare con la violenza, e il giuoco si ripeterebbe senza fine. La comunità deve essere mantenuta permanentemente, organizzarsi, prescrivere gli statuti che prevengano le temute ribellioni, istituire organi che veglino sull’osservanza delle prescrizioni - le leggi - e che provvedano all’esecuzione degli atti di violenza conformi alle leggi. Nel riconoscimento di una tale comunione di interessi s’instaurano tra i membri di un gruppo umano coeso quei legami emotivi, quei sentimenti comunitari sui quali si fonda la vera forza del gruppo.
Con ciò, penso, tutto l’essenziale è gia stato detto: il trionfo sulla violenza mediante la trasmissione del potere a una comunità più vasta che viene tenuta insieme dai legami emotivi tra i suoi membri. Tutto il resto sono precisazioni e ripetizioni.
La cosa è semplice finché la comunità consiste solo di un certo numero di individui ugualmente forti. Le leggi di questo sodalizio determinano allora fino a che punto debba essere limitata la libertà di ogni individuo di usare la sua forza in modo violento, al fine di rendere possibile una vita collettiva sicura. Ma un tale stato di pace è pensabile solo teoricamente, nella realtà le circostanze si complicano perché la comunità fin dall’inizio comprende elementi di forza ineguale, uomini e donne, genitori e figli, e ben presto, in conseguenza della guerra e dell’assoggettamento, vincitori e vinti, che si trasformano in padroni e schiavi. Il diritto della comunità diviene allora espressione dei rapporti di forza ineguali all’interno di essa, le leggi vengono fatte da e per quelli che comandano e concedono scarsi diritti a quelli che sono stati assoggettati. Da allora in poi vi sono nella comunità due fonti d’inquietudine - ma anche di perfezionamento - del diritto. In primo luogo il tentativo di questo o quel signore di ergersi al di sopra delle restrizioni valide per tutti, per tornare dunque dal regno del diritto a quello della violenza; in secondo luogo gli sforzi costanti dei sudditi per procurarsi più potere e per vedere riconosciuti dalla legge questi mutamenti, dunque, al contrario, per inoltrarsi dal diritto ineguale verso il diritto uguale per tutti. Questo movimento in avanti diviene particolarmente notevole quando si danno effettivi spostamenti dei rapporti di potere all’interno della collettività, come può accadere per l’azione di molteplici fattori storici. Il diritto si può allora conformare gradualmente ai nuovi rapporti di potere, oppure, cosa che accade più spesso, la classe dominante non è pronta a tener conto di questo cambiamento, si giunge all’insurrezione, alla guerra civile, dunque a una temporanea soppressione del diritto e a nuove testimonianze di violenza, in seguito alle quali viene instaurato un nuovo ordinamento giuridico. C’è anche un’altra fonte di mutamento del diritto, che si manifesta solo in modi pacifici, cioè la trasformazione dei membri di una collettività, ma essa appartiene a un contesto che può essere preso in considerazione solo più avanti.
Vediamo dunque che anche all’interno di una collettività non può venire evitata la risoluzione violenta dei conflitti. Ma le necessità e le coincidenze di interessi che derivano dalla vita in comune sulla medesima terra favoriscono una rapida conclusione di tali lotte, e le probabilità che in queste condizioni si giunga a soluzioni pacifiche sono in continuo aumento. Uno sguardo alla storia dell’umanità ci mostra tuttavia una serie ininterrotta di conflitti tra una collettività e una o più altre, tra unità più o meno vaste, città, paesi, tribù, popoli, Stati, conflitti che vengono decisi quasi sempre mediante la prova di forza della guerra. Tali guerre si risolvono o in saccheggio o in completa sottomissione, conquista dell’una parte ad opera dell’altra. Non si possono giudicare univocamente le guerre di conquista. Alcune, come quelle dei Mongoli e dei Turchi, hanno arrecato solo calamità, altre al contrario hanno contribuito alla trasformazione della violenza in diritto avendo prodotto unità più grandi, al cui interno la possibilità di ricorrere alla violenza venne annullata e un nuovo ordinamento giuridico riuscì a comporre i conflitti. Così le conquiste dei Romani diedero ai paesi mediterranei la preziosa pax romana. La cupidigia dei re francesi di ingrandire i loro possedimenti creò una Francia pacificamente unita, fiorente. Per quanto ciò possa sembrare paradossale, si deve tuttavia ammettere che la guerra non sarebbe un mezzo inadatto alla costruzione dell’agognata pace “eterna”, poiché potrebbe riuscire a creare quelle più vaste unità al cui interno un forte potere centrale rende impossibili ulteriori guerre. Tuttavia la guerra non ottiene questo risultato perché i successi della conquista di regola non sono durevoli; le unità appena create si disintegrano, perlopiù a causa della insufficiente coesione delle parti unite forzatamente. E inoltre la conquista ha potuto fino ad oggi creare soltanto unificazioni parziali, anche se di grande estensione, e sono proprio i conflitti sorti all’interno di queste unificazioni che hanno reso inevitabile il ricorso alla violenza. Così l’unica conseguenza di tutti questi sforzi bellici è che l’umanità ha sostituito alle continue guerricciole le grandi guerre, tanto più devastatrici quanto meno frequenti.
Per quanto riguarda la nostra epoca, si impone la medesima conclusione a cui Lei è giunto per una via più breve. Una prevenzione sicura della guerra è possibile solo se gli uomini si accordano per costituire un’autorità centrale, al cui verdetto vengano deferiti tutti i conflitti di interessi. Sono qui chiaramente racchiuse due esigenze diverse: quella di creare una simile Corte suprema, e quella di assicurarle il potere che le abbisogna. La prima senza la seconda non gioverebbe a nulla. Ora la Società delle Nazioni è stata concepita come suprema potestà del genere, ma la seconda condizione non è stata adempiuta; la Società delle Nazioni non dispone di forza propria e può averne una solo se i membri della nuova associazione - i singoli Stati - gliela concedono. Tuttavia per il momento ci sono scarse probabilità che ciò avvenga. Ci sfuggirebbe il significato di un’istituzione come quella della Società delle Nazioni, se ignorassimo il fatto che qui ci troviamo di fronte a un tentativo coraggioso, raramente intrapreso nella storia dell’umanità e forse mai in questa misura. Essa è il tentativo di acquisire mediante il richiamo a determinati princìpi ideali l’autorità (cioè l’influenza coercitiva) che di solito si basa sul possesso della forza. Abbiamo visto che gli elementi che tengono insieme una comunità sono due: la coercizione violenta e i legami emotivi tra i suoi membri (ossia, in termini tecnici, quelle che si chiamano identificazioni). Nel caso in cui venga a mancare uno dei due fattori non è escluso che l’altro possa tener unita la comunità. Le idee cui ci si appella hanno naturalmente un significato solo se esprimono importanti elementi comuni ai membri di una determinata comunità. Sorge poi il problema: Che forza si può attribuire a queste idee? La storia insegna che una certa funzione l’hanno pur svolta. L’idea panellenica, per esempio, la coscienza di essere qualche cosa di meglio che i barbari confinanti, idea che trovò così potente espressione nelle anfizionie, negli oracoli e nei Giuochi, fu abbastanza forte per mitigare i costumi nella conduzione della guerra fra i Greci, ma ovviamente non fu in grado di impedire il ricorso alle armi fra le diverse componenti del popolo ellenico, e neppure fu mai in grado di trattenere una città o una federazione di città dallo stringere alleanza con il nemico persiano per abbattere un rivale. Parimenti il sentimento che accomunava i Cristiani, che pure fu abbastanza potente, non impedì durante il Rinascimento a Stati cristiani grandi e piccoli di sollecitare l’aiuto del Sultano nelle loro guerre intestine. Anche nella nostra epoca non vi è alcuna idea cui si possa attribuire un’autorità unificante del genere. È fin troppo chiaro che gli ideali nazionali da cui oggi i popoli sono dominati spingono in tutt’altra direzione. C’è chi predice che soltanto la penetrazione universale del modo di pensare bolscevico potrà mettere fine alle guerre, ma in ogni caso siamo oggi ben lontani da tale meta, che forse sarà raggiungibile solo a prezzo di spaventose guerre civili. Sembra dunque che il tentativo di sostituire la forza reale con la forza delle idee sia per il momento votato all’insuccesso. È un errore di calcolo non considerare il fatto che il diritto originariamente era violenza bruta e che esso ancor oggi non può fare a meno di ricorrere alla violenza.
Posso ora procedere a commentare un’altra delle Sue proposizioni. Lei si meraviglia che sia tanto facile infiammare gli uomini alla guerra, e presume che in loro ci sia effettivamente qualcosa, una pulsione all’odio e alla distruzione, che è pronta ad accogliere un’istigazione siffatta. Di nuovo non posso far altro che convenire senza riserve con Lei. Noi crediamo all’esistenza di tale istinto e negli ultimi anni abbiamo appunto tentato di studiare le sue manifestazioni. Mi consente, in proposito, di esporLe parte della teoria delle pulsioni cui siamo giunti nella psicoanalisi dopo molti passi falsi e molte esitazioni?
Noi presumiamo che le pulsioni dell’uomo siano soltanto di due specie, quelle che tendono a conservare e a unire - da noi chiamate sia erotiche (esattamente nel senso di Eros nel Convivio di Platone) sia sessuali, estendendo intenzionalmente il concetto popolare di sessualità, - e quelle che tendono a distruggere e a uccidere; queste ultime le comprendiamo tutte nella denominazione di pulsione aggressiva o distruttiva.
Lei vede che propriamente si tratta soltanto della dilucidazione teorica della contrapposizione tra amore e odio, universalmente nota, e che forse è originariamente connessa con la polarità di attrazione e repulsione che interviene anche nel Suo campo di studi. Non ci chieda ora di passare troppo rapidamente ai valori di bene e di male. Tutte e due le pulsioni sono parimenti indispensabili, perché i fenomeni della vita dipendono dal loro concorso e dal loro contrasto. Ora, sembra che quasi mai una pulsione di un tipo possa agire isolatamente, essa è sempre legata - vincolata, come noi diciamo - con un certo ammontare della controparte, che ne modifica la meta o, talvolta, solo così ne permette il raggiungimento. Per esempio, la pulsione di autoconservazione è certamente esotica, ma ciò non toglie che debba ricorrere all’aggressività per compiere quanto si ripromette. Allo stesso modo la pulsione amorosa, rivolta a oggetti, necessita un quid della pulsione di appropriazione, se veramente vuole impadronirsi del suo oggetto. La difficoltà di isolare le due specie di pulsioni nelle loro manifestazioni ci ha impedito per tanto tempo di riconoscerle.
Se Lei è disposto a proseguire con me ancora un poco, vedrà che le azioni umane rivelano anche una complicazione di altro genere. E’ assai raro che l’azione sia opera di un singolo moto pulsionale, il quale d’altronde deve essere già una combinazione di Eros e distruzione. Di regola devono concorrere parecchi motivi similmente strutturati per rendere possibile l’azione. Uno dei Suoi colleghi l’aveva già avvertito, un certo professor G. C. Lichtenberg, che insegnava fisica a Gottinga al tempo dei nostri classici; ma forse egli era anche più notevole come psicologo di quel che fosse come fisico. Egli scoprì la rosa dei moventi, nell’atto in cui dichiarò: “I motivi per i quali si agisce si potrebbero ripartire come i trentadue venti e indicarli con nomi analoghi, per esempio ‘Pane-Pane-Fama’ o ‘Fama-Fama-Pane’.” Pertanto, quando gli uomini vengono incitati alla guerra, è possibile che si destino in loro un’intera serie di motivi consenzienti, nobili e volgari, quelli di cui si parla apertamente e altri che vengono taciuti. Non è il caso di enumerarli tutti. Il piacere di aggredire e distruggere ne fa certamente parte; innumerevoli crudeltà della storia e della vita quotidiana confermano la loro esistenza e la loro forza. Il fatto che questi impulsi distruttivi siano mescolati con altri impulsi, erotici e ideali, facilita naturalmente il loro soddisfacimento. Talvolta, quando sentiamo parlare delle atrocità della storia, abbiamo l’impressione che i motivi ideali siano serviti da paravento alle brame di distruzione; altre volte, trattandosi per esempio crudeltà della Santa Inquisizione, che i motivi ideali fossero preminenti nella coscienza, mentre i motivi distruttivi recassero loro un rafforzamento inconscio. Entrambi i casi sono possibili.
Ho qualche scrupolo ad abusare del Suo interesse, che si rivolge alla prevenzione della guerra e non alle nostre teorie. Tuttavia vorrei intrattenermi ancora un attimo sulla nostra pulsione distruttiva, meno nota di quanto richiederebbe la sua importanza. Con un po’ di speculazione ci siamo convinti che essa opera in ogni essere vivente e che la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stato della materia inanimata. Con tutta serietà le si addice il nome di pulsione di morte, mentre le pulsioni erotiche stanno a rappresentare gli sforzi verso la vita. La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva allorquando, con l’aiuto di certi organi, si rivolge all’esterno, verso gli oggetti. L’essere vivente protegge, per così dire, la propria vita distruggendone una estranea. Una parte della pulsione di morte, tuttavia, rimane attiva all’interno dell’essere vivente e noi abbiamo tentato di derivare tutta una serie di fenomeni normali e patologici da questa interiorizzazione della pulsione distruttiva. Siamo perfino giunti all’eresia di spiegare l’origine della nostra coscienza morale con questo rivolgersi dell’aggressività verso l’interno. Noti che non è affatto indifferente se questo processo è spinto troppo oltre in modo diretto; in questo caso è certamente malsano. Invece il volgersi di queste forze pulsionali alla distruzione nel mondo esterno scarica l’essere vivente e non può non avere un effetto benefico. Ciò serve come scusa biologica a tutti gli impulsi esecrabili e pericolosi contro i quali noi combattiamo. Si deve ammettere che essi sono più vicini alla natura di quanto lo sia la resistenza con cui li contrastiamo e di cui ancora dobbiamo trovare una spiegazione. Forse Lei ha l’impressione che le nostre teorie siano una specie di mitologia, in questo caso neppure festosa. Ma non approda forse ogni scienza naturale in una sorta di mitologia? Non è così oggi anche per Lei, nel campo della fisica?
Per gli scopi immediati che ci siamo proposti da quanto precede ricaviamo la conclusione che non c’è speranza di poter sopprimere le tendenze aggressive degli uomini. Si dice che in contrade felici, dove la natura offre a profusione tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno, ci sono popoli la cui vita scorre nella mitezza. presso cui la coercizione e l’aggressione sono sconosciute. Posso a malapena crederci; mi piacerebbe saperne di più, su questi popoli felici. Anche i bolscevichi sperano di riuscire a far scomparire l’aggressività umana, garantendo il soddisfacimento dei bisogni materiali e stabilendo l’uguaglianza sotto tutti gli altri aspetti tra i membri della comunità. Io la ritengo un’illusione. Intanto, essi sono diligentemente armati, e fra i modi con cui tengono uniti i loro seguaci non ultimo è il ricorso all’odio contro tutti gli stranieri. D’altronde non si tratta, come Lei stesso osserva, di abolire completamente l’aggressività umana; si può cercare di deviarla al punto che non debba trovare espressione nella guerra.
Partendo dalla nostra dottrina mitologica delle pulsioni, giungiamo facilmente a una formula per definire le vie indirette di lotta alla guerra. Se la propensione alla guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all’antagonista di questa pulsione: l’Eros. Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra. Questi legami possono essere di due tipi. In primo luogo relazioni che pur essendo prive di meta sessuale assomiglino a quelle che si hanno con un oggetto d’amore. La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: “ama il prossimo tuo come te stesso”.
Ora, questo è un precetto facile da esigere, ma difficile da attuare. L’altro tipo di legame emotivo è quello per identificazione. Tutto ciò che provoca solidarietà significative tra gli uomini risveglia sentimenti comuni di questo genere, le identificazioni. Su di esse riposa in buona parte l’assetto della società umana.
L’abuso di autorità da Lei lamentato mi suggerisce un secondo metodo per combattere indirettamente la tendenza alla guerra. Fa parte dell’innata e ineliminabile diseguaglianza tra gli uomini la loro distinzione in capi e seguaci. Questi ultimi sono la stragrande maggioranza, hanno bisogno di un’autorità che prenda decisioni per loro, alla quale perlopiù si sottomettono incondizionatamente. Richiamandosi a questa realtà, si dovrebbero dedicare maggiori cure, più di quanto si sia fatto finora all’educazione di una categoria superiore di persone dotate di indipendenza di pensiero, inaccessibili alle intimidazioni e cultrici della verità, alle quali dovrebbe spettare la guida delle masse prive di autonomia. Che le intrusioni del potere statale e la proibizione di pensare sancita dalla Chiesa non siano favorevoli ad allevare cittadini simili non ha bisogno di dimostrazione. La condizione ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione. Nient’altro potrebbe produrre un’unione tra gli uomini così perfetta e così tenace, perfino in assenza di reciproci legami emotivi. Ma secondo ogni probabilità questa è una speranza utopistica. Le altre vie per impedire indirettamente la guerra sono certo più praticabili, ma non promettono alcun rapido successo. E’ triste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la gente muore di fame prima di ricevere la farina.
Vede che, quando si consulta il teorico estraneo al mondo per compiti pratici urgenti, non ne vien fuori molto. E’ meglio se in ciascun caso particolare si cerca di affrontare il pericolo con i mezzi che sono a portata di mano. Vorrei tuttavia trattare ancora un problema, che nel Suo scritto Lei non solleva e che m’interessa particolarmente. Perché ci indigniamo tanto contro la guerra, Lei e io e tanti altri, perché non la prendiamo come una delle molte e penose calamità della vita? La guerra sembra conforme alla natura, pienamente giustificata biologicamente, in pratica assai poco evitabile. Non inorridisca perché pongo la domanda. Al fine di compiere un’indagine come questa è forse lecito fingere un distacco di cui in realtà non si dispone. La risposta è: perché ogni uomo ha diritto alla propria vita, perché la guerra annienta vite umane piene di promesse, pone i singoli individui in condizioni che li disonorano, li costringe, contro la propria volontà, a uccidere altri individui, distrugge preziosi valori materiali, prodotto del lavoro umano, e altre cose ancora. Inoltre la guerra nella sua forma attuale non dà più alcuna opportunità di attuare l’antico ideale eroico, e la guerra di domani, a causa del perfezionamento dei mezzi di distruzione, significherebbe lo sterminio di uno o forse di entrambi i contendenti. Tutto ciò è vero e sembra così incontestabile che ci meravigliamo soltanto che il ricorso alla guerra non sia stato ancora ripudiato mediante un accordo generale dell’umanità. Qualcuno dei punti qui enumerati può evidentemente essere discusso: ci si può chiedere se la comunità non debba anch’essa avere un diritto sulla vita del singolo; non si possono condannare nella stessa misura tutti i tipi di guerra; finché esistono stati e nazioni pronti ad annientare senza pietà altri stati e altre nazioni, questi sono necessitati a prepararsi alla guerra. Ma noi vogliamo sorvolare rapidamente su tutto ciò, giacché non è questa la discussione a cui Lei mi ha impegnato. Ho in mente qualcos’altro, credo che la ragione principale per cui ci indigniamo contro la guerra è che non possiamo fare a meno di farlo. Siamo pacifisti perché dobbiamo esserlo per ragioni organiche: ci è poi facile giustificare il nostro atteggiamento con argomentazioni.
So di dovermi spiegare, altrimenti non sarò capito. Ecco quello che voglio dire: Da tempi immemorabili l’umanità è soggetta al processo dell’incivilimento (altri, lo so, chiamano più volentieri questo processo: civilizzazione). Dobbiamo ad esso il meglio di ciò che siamo divenuti e buona parte di ciò di cui soffriamo.
Le sue cause e origini sono oscure, il suo esito incerto, alcuni dei suoi caratteri facilmente visibili. Forse porta all’estinzione del genere umano, giacché in più di una guisa pregiudica la funzione sessuale, e già oggi si moltiplicano in proporzioni più forti le razze incolte e gli strati arretrati della popolazione che non quelli altamente coltivati. Forse questo processo si può paragonare all’addomesticamento di certe specie animali; senza dubbio comporta modificazioni fisiche; tuttavia non ci si è ancora familiarizzati con l’idea che l’incivilimento sia un processo organico di tale natura. Le modificazioni psichiche che intervengono con l’incivilimento sono invece vistose e per nulla equivoche. Esse consistono in uno spostamento progressivo delle mete pulsiona!i. Sensazioni che per i nostri progenitori erano cariche di piacere, sono diventate per noi indifferenti o addirittura intollerabili; esistono fondamenti organici del fatto che le nostre esigenze ideali, sia etiche che estetiche, sono mutate. Dei caratteri psicologici della civiltà, due sembrano i più importanti: il rafforzamento dell’intelletto, che comincia a dominare la vita pulsionale, e l’interiorizzazione dell’aggressività, con tutti i vantaggi e i pericoli che ne conseguono. Orbene, poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più; non si tratta soltanto di un rifiuto intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale, per così dire della massima idiosincrasia. E mi sembra che le degradazioni estetiche della guerra non abbiano nel nostro rifiuto una parte molto minore delle sue crudeltà.
Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è una speranza utopistica che l’influsso di due fattori - un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo indovinarlo. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra.
La saluto cordialmente e Le chiedo scusa se le mie osservazioni L’hanno delusa.
Suo Sigm. Freud

questo e’ un vero bar
ognitanto nei bar si sentono dei discorsi metafisici :smiley:
e poi continua a piovere, abbiamo tempo… :slight_smile:
io l’ ho gia’ letto quasi tre volte
ogni volta capisco qualche frase in piu’ e la capisco meglio
facevo gia’ cosi’ quando studiavo
se c’ era qualcosa di ostico, una prima volta lo leggevo, senza preoccuparmi tanto di capire: leggere e’ una cosa discretamente facile, non richiede grande fatica e quindi lo facevo volentieri
poi lasciavo un po’ li’, che il cervello elaborasse per conto suo e questo avveniva soprattutto se leggevo prima di andare a dormire
alla notte di certo non facevo di quei sogni appassionanti :rolleyes: , ma al mattino, la seconda lettura mi si presentava gia’ piu’ chiara
con le successive letture arrivavo a capire le cose
io sono convinta che se una cosa e’ stata scritta in modo coerente e ragionevole alla fine puo’ essere capita da chi legge
domani vado in gita con la scuola, hanno scelto i castelli della valdaosta
io speravo di buttare l’ occhio sui montagnoni intorno, ma mi sa che non potro’ vedere molto: e’ previsto brutto tempo
tra l’ altro la volta scorsa non ho permesso di usare ne’ cellulari, ne’ altri arnesi per tappare le orecchie; non so se sta volta ci riesco di nuovo perche’ i miei colleghi hanno visto che, se i ragazzi non hanno da smanettare, sono molto piu’ vivaci: cantano, ridono, fanno gazzarra e… fanno venire un capoccione cosi’ …
comunque speriamo bene :slight_smile:

adesso nei prati e’ il turno di questi
si chiamano knautia arvensis o ambretta comune

che periodaccio
allora metto una fotina della mia montagna :slight_smile:

sono qui davanti a un cielo stupendo, mentre il sole rinnova il suo passaggio, uguale da miliardi di anni
quanti altri astri fanno percorsi simili in altri luoghi così lontani da non poterli neanche immaginare
e’ la vita, su questa terra unica nel suo genere, che ci fa commuovere di fronte ai colori dell’ alba
questa vita, che ci appassiona, che ci fa amare, sperare, resistere…
le nostre domande in merito, il più delle volte restano senza risposta
continuiamo, presi da ciò che lei ci offre dallo stesso cesto: a volte gioie dolcissime, a volte dolori che sembrano insopportabili

in questo periodo c’ e’ una bella « stella » grande che passa a farmi visita appena vado a nanna
passa davanti alla finestra, verso sud
dev’ essere giove, se non sbaglio
ho cercato su parecchi siti di astrofili, volevo sapere di preciso :geek:
qualcuno di voi se ne intende?
quando ero giovane passavo tante notti col naso all’ insu’ a guardare le stelle
ogni occasione era buona per stare tutta la notte fuori, magari prima di una salita , un canale o una cresta
in questo caso, tanto, anche nel rifugio non si riusciva a dormire piu’di tanto…
se c’ era il gruppo giusto, anche un cielo nero nero scaldava il cuore
poi, quando sono arrivati i figli, appena avevo per me una notte intera, altrocche’ guardare la luna!
ne approfittavo per dormire di gusto fino al mattino :smiley:

gradite? :stuck_out_tongue:

non ho mai visto tanta aquilegia come quest’ anno!

e’ lei:

oppure anche

non so a voi, ma a me, certe volte viene da pensare che, nel giardino delle idee, tutto sia già stato detto
che tutte le poesie siano già state recitate, i romanzi e le storie raccontate
poi invece salta fuori l’ idea, il bel libro, l’ articolo che ancora mancava
pensieri, così belli che avrei voluto scriverli io
che dicono cose forse risapute, magari reinventate, ma che non avevo mai preso in considerazione
ci passavo su senza fare attenzione, e loro erano li’ , pronte a farmi meraviglia
non so come avevo fatto a non vederle prima
e allora mi convinco le idee non finiscono mai
soprattutto quando c’ e’ la possibilita’ di confrontarsi, di mettere in comune i pensieri, di ritrovarsi in questa dimensione senza tempo
succede anche tra amici
le cose da dire non hanno limite e non sono mai le stesse, anche dopo una vita :slight_smile:

adesso e’ il suo turno
la ginestrina :slight_smile:

Grazie!

Buona giornatta…

ultimo giorno di scuolaaaaaaaaaaaa!!! :smiley: (ancora gli esami, ma sono un’ altra cosa)

UNA SCUOLA GRANDE COME IL MONDO di Gianni Rodari

C’è una scuola grande come il mondo.
Ci insegnano maestri e professori,
avvocati, muratori,
televisori, giornali,
cartelli stradali,
il sole, i temporali, le stelle.
Ci sono lezioni facili
e lezioni difficili,
brutte, belle e così così…
Si impara a parlare, a giocare,
a dormire, a svegliarsi,
a voler bene e perfino
ad arrabbiarsi.
Ci sono esami tutti i momenti,
ma non ci sono ripetenti:
nessuno puo’ fermarsi a dieci anni,
a quindici, a venti,
e riposare un pochino.
Di imparare non si finisce mai,
e quel che non si sa
è sempre più importante
di quel che si sa già.
Questa scuola è il mondo intero
quanto è grosso:
apri gli occhi e anche tu sarai promosso!